Esistono diversi punti di contatto fra la psicologia e le organizzazioni: gli psicologi entrano nella selezione e nella gestione del personale; sono i protagonisti nella formazione del personale, tramite corsi che ruotano soprattutto intorno al tema della crescita personale; sono attori necessari nella progettazione delle interfacce fra le persone ed i sistemi. Oppure nella trasformazione dei processi di produzione.
Eccetera eccetera.
Perché la psicologia è come il bianco, va un po’ su tutto.
Al netto delle resistenze e degli ostacoli posti da chi le organizzazioni le gestisce e ne determina la direzione operativa.
Perché è evidente a tutti che le sopra riportate affermazioni non rispecchiano la realtà dei fatti.
Ma supponiamo, per un momento, di vivere in un mondo dove i pregiudizi verso la psicologia e gli psicologi non esistano, un mondo dove ogni ruolo venga assegnato alla figura più competente per svolgere quella mansione.
E un mondo dove le organizzazioni abbiano a disposizione le risorse economiche per strutturarsi al meglio. Perché, diciamocelo, esiste anche questo ostacolo, sarebbe poco realistico dimenticarselo.
In questo mondo ideale, cosa si potrebbe pensare di fare per le organizzazioni?
Lavoro da più di 30 anni a stretto contatto con organizzazioni di vario tipo, nelle quali ho ricoperto diverse posizioni, anche quella di project manager; questo, negli anni, ha significato, fra le altre cose: partecipare alle riunioni, determinare gli obiettivi, stendere le pianificazioni, gestire le scadenze, riflettere sui costi.
Oltre alle…
pause caffè, relazioni formali ed informali, successi e fallimenti, formazione delle persone, addii e nuovi arrivi, problemi risolti e problemi ignorati, una comunicazione fitta fitta…
Per occuparmi di tutto questo ho dovuto mettere in campo il mio grosso bagaglio di esperienza e qualche metodologia, acquisita nel tempo, sulla gestione dei progetti. Per fare un esempio, con queste competenze sono stata in grado di pianificare il lavoro dei gruppi a me assegnati, che, essenzialmente, significa questo: data la lista di attività necessarie per realizzare il progetto del momento, ognuna con la sua priorità e la sua durata, metterle in fila; il risultato è una bella pianificazione molto pulita e molto razionale.
Dopo, e sottolineo solo dopo, mi sentivo legittimata ad assegnare le attività alle persone. Espletato anche questo compito, verrebbe naturale pensare che il mio solo obbligo, da quel momento in poi, fosse quello di controllare gli avanzamenti del progetto, comodamente seduta sulla sediola della mia scrivania.
Un bel modo di vivere.
E se fosse sopraggiunto un problema? Oh, che bello, un pizzico di emozione in quella vita tranquilla: un problemone da risolvere velocemente con una o due riunioni, all’insegna dei toni cordiali e dei grandi sorrisi.
Ma allora, perché se mi giro e guardo i miei anni passati in azienda, vedo solo caos?
Perché la bella pianificazione, pulita e razionale, già si smontava nel tentativo di assegnare le attività alle persone. E le cose non miglioravano durante l’avanzamento del progetto…
Partiamo da un presupposto: la persona è l’elemento imprescindibile per realizzare quasi ogni cosa che abbia bisogno di adattamento, creatività, coscienza, capacità decisionale, emozioni.
Enormi capacità che sono di grande aiuto se indirizzate correttamente.
Il problema è che le metodologie che insegnano a gestire i progetti difficilmente parlano delle persone. Che, purtroppo per i metodi, costituiscono il fattore principale nella realizzazione dei progetti. E così variabile e determinante da essere in grado di rendere inadeguato il metodo.
Di quegli anni ricordo che mi frullava continuamente in testa una richiesta: “Voglio un esperto di esseri umani, che si sieda qui vicino a me, alle riunioni, alla mia scrivania, che ascolti le mie telefonate e che mi aiuti a dare un senso a quello che sto passando”.
Necessitavo di un esperto che mi potesse aiutare a decifrare l’intricato mondo delle dinamiche relazionali.
Questo era il macigno che mi pesava addosso.
Però non pensare che aspirassi alla realizzazione di un ideale, del tipo: come potrei fare per costruire un gruppo coeso e coinvolgente, dove tutti possano esprimersi al meglio?
No. Avrei solo voluto che qualcuno mi spiegasse come gestire l’immensa variabilità di risposte comportamentali che si possono ottenere dalle diverse persone nelle diverse situazioni.
Perché per questi problemi, abbiamo capito, bisogna contare solo sulle proprie risorse; ma se queste risorse non le avessi, o se fossero momentaneamente indisponibili in quanto troppo pressata, strattonata o coinvolta per essere obiettiva?
Perché 5, 6, 10, 50 persone, ognuna con la propria professionalità e le proprie legittime aspirazioni, portano in azienda 5, 6, 10, 50 valori personali, convinzioni, obiettivi, speranze, emozioni, temperamenti, modi di scegliere e giudicare. Tutti, indipendentemente dal ruolo.
Legittime ed auspicabili differenze individuali che si trovano ad esprimersi in uno spazio ridotto, come può esserlo un gruppo di lavoro.
Questa è la realtà delle cose.
L’esperto di esseri umani mi avrebbe dovuta aiutare a capire cosa stesse succedendo, cosa stavo sbagliando e come risolvere.
Non avendolo a disposizione, ho deciso di studiare per avviarmi verso questa professione.
E, nel leggere qua e là, mi sono imbattuta in quella che ho tradotto come “psicologia di processo”, che assegna allo psicologo il ruolo di esperto di esseri umani nei processi di realizzazione dei progetti.
Certo, è solo un’opinione, ma perché no?
Di seguto il testo che sto usando come riferimento:
Wastian, Rosenstiel, West, Braumandl. Applied Psychology for Project Managers. Springer Berlin Heidelberg.
https://www.springer.com/series/10101
Questo è solo il primo articolo che pubblicherò sul tema, che mi sembra estremamente importante per non essere trattato.
Se qualcuno fosse particolarmente interessato a questa tematica, può scrivermi nella sezione Contatti o nei commenti qui sotto.